“Sei arrivato a destinazione.”
L’impiegato con gli occhiali non poté fare a meno di notare un certo tono sarcastico, nella voce del suo navigatore satellitare, ma l’ignorò e parcheggiò nell’apposito spazio. Scese dall’auto, si avvicinò alla colonnina del car-sharing e disse il suo nome. Si accese una luce verde.
«Lascio l’auto alle ore 20:20. Nessun evento da riportare.»
Un: “bip” gli notificò l’avvenuta ricezione del messaggio.
L’uomo sapeva perfettamente che quella precisazione era pleonastica: nello stesso istante in cui lui aveva chiuso la portiera, l’auto aveva comunicato alla centrale di controllo le stesse informazioni, aggiungendo i chilometri percorsi, i consumi ed altre informazioni diagnostiche sullo stato complessivo del motore. L’unica ragione per cui anche gli utenti erano obbligati a fornire delle informazioni sul tragitto era di natura legale: così, se si fosse scoperto un guasto o un danno all’auto, alla sanzione amministrativa si sarebbe potuto aggiungere un addebito penale per falsa testimonianza e violazione del contratto di utilizzo.
Si aprì un portone (l’auto aveva segnalato il suo arrivo) e l’uomo entrò.
Sulla parete di fondo dell’androne c’erano le porte di tre ascensori.
L’impiegato con gli occhiali si chiese quale delle tre si sarebbe aperta, stavolta.
Si aprì quella di centro.
«Ciao, tesoro,» disse la donna con la treccia bionda e lo baciò. Un bacio garbato, ma affettuoso. «Com’è andata, oggi, in ufficio?»
«Al solito,» rispose l’uomo, lasciando la sua mano nei capelli di lei.
«Per cena ho ordinato del sushi,» disse lei. «Per te va bene?»
L’uomo si chiese cosa sarebbe successo, a quel punto, se lui avesse detto no, ma non mutò la sua espressione.
«Va bene,» rispose. Era sincero. «Mi cambio.»
Andò nella camera a fianco.
Nel muro davanti al letto c’era lo scomparto di scambio: una nicchia di un metro per due, profonda trenta centimetri.
Nella nicchia c’erano due pantofole e una stampella con il suo abito da casa, lavato e stirato.
L’uomo si spogliò completamente e indossò l’abito da casa e le pantofole.
Mise il suo abito da lavoro sulla stampella e la biancheria sporca in una sacca, poi mise abito, sacca e scarpe nello scomparto di scambio.
Chiuse lo sportello dello scomparto di scambio e un attimo dopo sentì i meccanismi della cremagliera trascinare via i suo vestito sporco, sostituendolo con un altro abito pulito e stirato.
Per un attimo ebbe la tentazione di guardare di che colore fosse il completo che avrebbe indossato il giorno dopo, ma si trattenne, preferendo rimandare all’indomani la sorpresa.
Almeno quella.
«Vuoi una birra, mentre aspettiamo la cena?» gli chiese la donna vedendolo rientrare nel soggiorno.
L’uomo fece un rapido conto: di quattro frasi che lei gli aveva rivolto, tre erano domande.
Stimolante.
«No, grazie,» rispose. «Preferirei un gin-tonic.»
La donna lo guardò stupita.
«Giornata dura?» chiese e, senza aspettare una risposta, che dava per scontata, compose sul tastierino numerico del distributore di bevande il codice del gin-tonic.
Quattro su cinque, pensò lui.
Rumore sommesso di ghiaccio che cadeva in un bicchiere, rumore di liquidi che venivano versati, poi lo sportellino del distributore si aprì.
La donna prese il bicchiere dal distributore e lo passò all’uomo.
«Tu non prendi niente?» chiese lui. Lei scosse la testa, così l’uomo fece il primo sorso.
Lei stava per fargli una nuova domanda, ma lui la prevenne.
«Non ti viene mai voglia di possedere qualcosa?»
Lei lo fissò stupita.
«In che senso?» chiese.
«Avere qualcosa di tuo.»
«Qualcosa di che genere?»
«Non so,» rispose l’uomo e diede un’occhiata verso la stanza da letto. «Un abito..
Lei sorrise.
«Stai scherzando?»
L’uomo bevve un altro sorso di gin-tonic.
«No, sono serio.»
La donna smise di sorridere.
Capiva che c’era qualcosa che non andava, ma non riusciva a capire cosa fosse.
Non poté far altro che stare al gioco.
«Ovviamente no. Se avessi un abito mio, dovrei avere un armadio dove riporlo e una lavatrice per lavarlo e se si scuce, lo dovrei riparare. O meglio: portarlo a riparare, visto che non mi ricordo più come si infila un ago.»
«E un paio di scarpe? A voi donne piacciono le scarpe.»
Lei cominciava a essere infastidita da quella conversazione.
«Hai idea di quanto costi un paio di scarpe da donna?» chiese. «Perché dovrei spendere tutti quei soldi per avere un paio di scarpe che il prossimo anno non sarà più di moda quando, con la stessa somma, posso avere ogni giorno un paio di scarpe differente, sempre alla moda?»
L’uomo notò il cambiamento nello sguardo di lei e cercò di evitarlo.
Si voltò e andò a sedersi sul divano.
Lei restò in piedi.
«Hai ragione,» disse poi. «Ma qualcosa che non sia soggetto alle mode? Un servizio di bicchieri, per esempio, come avevano i nostri genitori..»
«Ancora: no; perché se avessi un servizio di bicchieri, come avevano i nostri genitori, dovrei avere un mobile dove riporli e una lavastoviglie per lavarli. E se avessi un servizio di bicchieri, quando cambiamo casa dovrei imballarli e portarmeli dietro, come facevano i nostri genitori; con la sola, trascurabile differenza che i nostri genitori cambiavano casa due, tre volte in tutta la loro vita, mentre noi lo facciamo tutti i giorni.»
La donna pensava che quest’ultima affermazione avrebbe chiuso la discussione, ma si sbagliava.
«Ecco,» disse l’uomo. «Anche questa cosa di cambiare sempre casa, non la trovi alienante? Se in auto non avessi il navigatore satellitare, non saprei come tornare a casa dall’ufficio, perché non so dove sia, la mia casa.»
«Sai cosa trovo alienante? Che vent’anni fa la gente usasse il navigatore per tornare a casa dall’ufficio anche se aveva fatto quella stessa strada centinaia di volte. Se dovessimo comprarci casa con i nostri stipendi, non potremmo permetterci una casa spaziosa come questa, ma vivremmo in un monolocale con la tazza del cesso sotto il lavabo e quello sì, che sarebbe alienante. Ci sono solo due categorie che possono permettersi di vivere come vorresti vivere tu: le persone molto ricche e gli agricoltori; quindi, o diventi molto ricco o impari a coltivare la terra.»
Le argomentazioni di lei erano ineccepibili.
Lui non poté fare altro che abbassare gli occhi.
«Hai ragione,» disse. «Io lo so che tu hai ragione, che il cloud immobiliare era l’unica soluzione possibile al problema degli alloggi nelle città, ma trovo lo stesso che sia un modo di vivere innaturale..»
La resa di lui rese lei meno aggressiva.
«I contadini hanno la loro casa, i loro vestiti, i loro servizi di piatti e non traslocano mai perché devono occuparsi dei campi, ma passano tutto il loro tempo a lavarsi i vestiti, a pulire la casa e a prepararsi i pasti. Credono di possedere le cose, ma in realtà sono le cose che possiedono loro e li rendono schiavi. Davvero vuoi vivere così?»
Lui la guardò negli occhi, ma non era uno sguardo di sfida.
«Ma noi, cosa ne facciamo del nostro tempo libero? Quand’è stata l’ultima volta che siamo usciti la sera, che abbiamo sentito un concerto o visto qualcuno? Torniamo a casa dal lavoro, indossiamo l’abito che qualcun altro ha scelto per noi, mangiamo il cibo che qualcun altro ha preparato e passiamo la sera guardando un film o un programma on-demand. Che vita è?»
Il fatto che stavolta avesse ragione, riportò lei sulla difensiva:
«E allora torna alla Natura!» esclamò. «Vai a fare il contadino e vivi felice. Ma lo sai fare il bucato? Li sai lavare i piatti? Lo sai fare un gin-tonic?»
«Posso sempre imparare,» rispose l’uomo e bevve l’ultimo sorso del suo cocktail, poi porse il bicchiere alla donna e disse:
«Me ne daresti un altro, per favore?»
A lei non piaceva il fatto che lui bevesse, ma sapeva che se si fosse opposta lui si sarebbe innervosito, quindi gli parlò come una madre parla al figlio che non vuole più andare a scuola:
«Io te ne prendo un altro, se vuoi,» disse. «Ma, se lo faccio, quando arriverai al lavoro domani l’Ufficio Coaching ti chiamerà e ti chiederà perché hai bevuto due super-alcolici nella stessa serata e se non gli piacerà la tua risposta, ti ritroverai una nota nella tua scheda personale..»
L’uomo scosse la testa.
«No, non credo che domani faranno domande.»
La donna girò intorno al divano e si accucciò davanti a lui.
Gli tolse il bicchiere dalle mani e le prese fra le sue.
«Vuoi dirmi che cosa è successo, oggi, in ufficio? Cos’hai?»
L’uomo, seguendo un istinto primordiale, guardò per un attimo la macchia bianca delle mutandine di lei che si intravedeva in fondo al tunnel della gonna, poi, passò repentinamente dall’origine della vita al suo termine.
«Un mio collega si è buttato giù,» disse.
Lei si convinse di non aver capito.
Il suo cervello rifiutò di accettare l’ipotesi più probabile.
«In che senso?» chiese.
«È salito sul terrazzo, si è tolto le scarpe, la giacca e la cravatta, poi si è buttato giù.»
Lei si sedette sul pavimento e si appoggiò con le spalle alla poltrona.
«Mio Dio,» disse «È terribile..»
«Una mia collega se l’è visto passare davanti alla finestra.»
Lei chiuse gli occhi, ma questo non le impedì di vedere la scena.
«Ci hanno fatti uscire tutti per un paio d’ore, poi ci hanno fatti rientrare.
La narrazione di lui era asettica, come se parlasse di una giornata al centro commerciale; i suoi occhi fissavano un punto imprecisato leggermente a destra del corpo di lei.
«E si sa perché lo ha fatto?» chiese lei, rimettendosi lentamente in piedi.
Lui scosse appena la tesa.
«No,» disse. «Non ha lasciato nessun messaggio e le persone che lo hanno visto prima che lo facesse non hanno notato nulla di strano nel suo comportamento. Hanno detto che sembrava molto tranquillo, quasi felice.»
Lei nel frattempo si era avvicinata al distributore di bevande.
Compose il codice del gin-tonic, ma per prudenza lo ordinò con il suo codice personale.
Se l’indomani le avessero fatto delle domande, avrebbe detto la verità.
Restarono in silenzio mentre la macchina preparava la bevanda.
Lei rilesse mentalmente tutta la conversazione alla luce di quanto lui le aveva appena detto e quando prese il bicchiere e glielo portò capì che nulla, da quel momento in poi, sarebbe più stato come prima.
«E adesso?» chiese.
Lui bevve un sorso piuttosto abbondante, poi poggiò il bicchiere per terra, vicino ai suoi piedi.
«E adesso niente,» rispose. «Domani mi vestirò, prenderò l’auto e andrò a lavorare, come sempre. Ci hanno detto che, se vogliamo, possiamo prenderci un giorno di riposo, ma non ha senso: non credo che dopodomani starò molto meglio di come sto adesso.»
«Ma era un tuo amico?» chiese lei, sedendosi sulla poltrona.
«No, non lo conoscevo: era all’Ufficio Acquisti. Lavoravamo da cinque anni nello stesso posto e non ci siamo mai scambiati una parola, o, se lo abbiamo fatto, non me lo ricordo.»
Bevve ancora, un sorso rapido, e disse:
«A questo punto non fa molta differenza, però.»
Lei annuì.
«Scusami se sono stata acida,» disse. «Mi dispiace.»
Lui si alzò e le carezzò una guancia.
«Non sei stata acida: avevi ragione. Hai ragione. E non potevi sapere.»
Lei gli strinse la mano.
«Mi dispiace lo stesso,» disse.
Lui le prese la testa fra le mani e le baciò i capelli.
«Vado a lavarmi le mani, così poi ceniamo.»
Entrò nel bagno e, ossequioso alle direttive del Ministero dell’Ambiente, orinò nel lavabo mentre si lavava le mani, in modo da risparmiare l’acqua dello sciacquone.
Rinfoderò l’organo secretore, si sciacquò nuovamente le mani, poi il viso.
Si guardò allo specchio solo per un attimo, prima di uscire.
Quando rientrò nel salone, lei era sulla porta.
«Problemi con la cena?» chiese. «Il fattorino ha sbagliato un altra volta scala?»
La donna non rispose.
«Dove stavi andando?» chiese lui; di nuovo, nessuna risposta.
Lei fece scorrere la mano sul battente delle porta e sembrò aggrapparvisi.
Lui intuì quello che stava succedendo.
Il suo cervello gli diceva di avvicinarsi a lei, ma le gambe non si muovevano.
«Te ne stavi andando?»
Lei rispose senza guardarlo.
«Ho chiesto un ricalcolo del nostro coefficiente di compatibilità. Siamo sotto al dieci per cento, non può funzionare.»
Lui finalmente riuscì ad avvicinarsi a lei; le tolse la mano dal battente e chiuse la porta.
«Per una sola, singola discussione? Solo perché per una volta, chissà come mai, non sono tornato a casa allegro e sorridente?»
«Tu non c’entri,» rispose lei, tenendo gli occhi bassi. «Sono io, il problema.»
«Per favore, risparmiami questi cliché» disse lui, allontanandosi «Cos’è successo, in questi dieci minuti, che ti ha fatto cambiare idea su di noi?»
«Ho capito che voglio avere un bambino,» rispose lei.
Lui la fissò e vide che stava piangendo.
«È la prima volta che te lo sento dire..»
«Lo so,» rispose lei, asciugandosi il viso con una mano.
«E da quando?»
«Da quando ti ho preso il gin-tonic.»
«Il primo o il secondo?» chiese lui.
Una domanda tanto surreale quanto inevitabile.
«Il secondo,» rispose lei, cercando di trattenere i singhiozzi.
Si appoggiò con il fianco destro alla maniglia della porta e la afferrò con la mano sinistra ottenendo, allo stesso tempo, un punto di sostegno e l’illusione di un abbraccio.
Lui recuperò il bicchiere da terra e bevve.
«Aiutarti mentre eri vulnerabile mi ha dato un senso di gioia indescrivibile. Occuparmi di te, accudirti, è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata e ho capito che è quello, che io devo fare.»
«E allora resta,» disse lui. «Credimi: io avrò molto bisogno di aiuto nel prossimo futuro..»
Lei scosse la testa e sorrise sconsolata.
«No, ti conosco: se resto andremo a dormire, forse faremo anche l’amore e sarà bellissimo, ne sono certa, ma domani mattina sarà tutto passato, finito. Ti trincererai di nuovo dietro alle tue certezze di granito e non mi lascerai più avvicinare.»
«Cazzate.»
«L’hai detto tu, poco fa: domattina ti sveglierai, ti vestirai e andrai al lavoro, come se non fosse successo niente. Il tuo dolore, la tua umanità, li rinchiuderai in quella cassaforte che hai nascosto in fondo alla tua coscienza e non avrai più bisogno di me. Io questo non lo voglio. Io ho scoperto di avere un’indole accudente e voglio qualcuno da accudire: voglio un figlio.»
«E per questo tuo anelito materno sei disposta a buttare via tutto quello che c’è stato fra noi? Siamo stati sposati per sette, lunghi mesi, più del doppio della media nazionale e tu volevi lasciarmi mentre ero al cesso a pisciare?»
Lei gli si avvicinò, ma non troppo: lasciò la porta e arrivò fino alla poltrona, appoggiandosi con una mano allo schienale.
«Non sono io che me ne sto andando, sei tu che mi costringi a farlo,» rispose, col tono più accudente che le riuscì di modulare. «Dimmi che anche tu vuoi un figlio e io rimango.»
Lui, non potendo mettersi in bocca il pollice, ci mise il Gin.
«Non puoi chiedermi questo,» disse poi.
«Lo vedi? Perché non vuoi, perché sei così contrario all’idea di mettere al Mondo un figlio?»
«Il problema non è il figlio,» rispose lui, amaro. «È il Mondo.»
Per un attimo lei non poté fare a meno di chiedersi quante probabilità ci fossero che, se lo lasciava, lui decidesse di emulare il suo collega nell’imitazione di Icaro, ma alla fine concluse che non era un suo problema: gli aveva dato una possibilità e lui l’aveva rifiutata; di più, non poteva fare. Lasciò la poltrona e tornò alla maniglia.
«Allora hai deciso?» chiese lui, pleonastico. «Vuoi davvero diventare un’incubatrice parlante?»
«Non essere assurdo,» rispose la donna. «Ho detto che voglio un figlio, non che voglio un parassita nel mio utero che mi faccia venire la nausea, le smagliature e le vene varicose. Darò i miei ovuli a un allevamento e chiederò che mi consegnino il bambino dopo lo svezzamento o comunque quando sarà capace di pulirsi da solo dopo che è andato in bagno: non ho intenzione di passare le notti a sentirlo piangere perché ha le coliche o perché gli stanno spuntando i denti.»
Lui sapeva che se ne sarebbe pentito, ma disse:
«Allora fattelo consegnare dopo la laurea, così non devi nemmeno aiutarlo con i compiti.»
Lei lo guardò con aria sconsolata, poi aprì la porta.
«Ciao,» disse.
Solo, nella sua casa che non era sua, l’impiegato con gli occhiali si maledisse per non essere riuscito a trattenersi dal criticare le velleità materne di lei.
In séguito avrebbe detto che la colpa era dei due gin-tonic che aveva in circolo, ma la verità era che anche da sobrio avrebbe fatto le stesse identiche battute sarcastiche.
Il sarcasmo è un’arma, gli aveva detto lei una volta e lui quell’arma se l’era puntata alla tempia e aveva premuto il grilletto.
Avrebbe dovuto dirle che anche lui voleva un bambino: lei sarebbe restata e, col tempo, lui era certo che sarebbe riuscito a farle cambiare idea, a toglierle dalla testa quell’assurda frenesia riproduttiva.
Avrebbe dovuto dire: “Sì, ma non ora”, trovare delle scuse, temporeggiare; invece le aveva fatto muro, senza lasciarle, o lasciarsi, nessuna via di scampo.
Era la sua solita schiettezza, la sua maledetta incapacità di tenersi dentro le cose che pensava.
O forse no, forse non era schiettezza, ma presunzione: la presunzione di sapere sempre cos’era giusto e cosa no; le sue granitiche certezze, come le aveva definite lei.
Centellinò il poco Gin che gli rimaneva; non sapeva che, per gli archivi digitali del Ministero della Salute, lui era ancora a quota uno.
Era al terzo giro del Valzer dei condizionali e mezzo addormentato quando sentì la porta aprirsi.
Nei due secondi che seguirono, visse nella sua mente tutto il prosieguo di quella serata disgraziata: le lacrime, le scuse, i baci e il sesso; soprattutto il sesso.
Vincendo il torpore alcolico, si alzò in piedi e rivolse i suoi occhi adoranti verso la donna con la treccia bionda che era comparsa sulla soglia.
Una donna piuttosto simile a quella che poco prima ne era uscita, ma non la stessa.
«Ciao, tesoro. Scusa se ho fatto tardi, ma c’era traffico. Com’è andata, oggi, in ufficio?»