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Novelle

La morte della formica

A mio padre,
il miglior cattivo esempio che potessi sperare di avere

La formica giaceva in terra, morente.
Sentendo arrivare la fine, aveva cercato di rientrare nel formicaio per chiedere aiuto, ma le forze le erano mancate e si era accasciata a pochi passi dall’entrata.
Le sue compagne le erano passate accanto per tutto il pomeriggio, ma non l’avevano degnata di uno sguardo, prese com’erano dalle loro incombenze di operose operaie; solo poco prima del tramonto le si era avvicinato un drappello di soldati per controllare che non fosse una spia mandata in avanscoperta da qualche formicaio rivale, ma quando l’avevano riconosciuta si erano voltati e se n’erano andati senza dirle nemmeno una parola.
Non biasimava nessuna di loro, per ciò: anche lei, negli anni passati, si era comportata nella stessa maniera quando aveva visto delle sue compagne anziane in fin di vita. La scusa che aveva dato a sé stessa, allora, era che le sue mansioni non erano quelle di assistere i moribondi, ma adesso che la moribonda era lei, capiva che il motivo era stato un altro.
Al tramonto aveva salutato il sole per l’ultima volta, certa che non l’avrebbe visto sorgere il mattino dopo. Quanto tempo era passato da allora? non avrebbe saputo dirlo. Con uno sforzo immane, sollevò il petto per respirare; l’aria della notte le portò odore di terra, di sterco e di un frutto in decomposizione poco distante. Per un attimo pensò che era suo dovere avvisare le altre operaie perché lo si andasse a prendere, ma poi si ricordò del suo stato e, sorridendo mestamente, pensò che non era importante: l’avrebbero scoperto da sole l’indomani. Espirò lentamente e si accorse di aver perso la sensibilità nelle due zampe posteriori. Era sola, aveva freddo e aveva paura.
Quando vide un fioco baluginìo diffondersi sul terreno pensò che su trattasse della luce della Luna, ma subito capì che doveva trattarsi di qualcos’altro, perché era concentrato solo in un punto, mentre la luce della Luna si sarebbe diffusa tutto intorno. Non volendo morire col dubbio, alzò a fatica la testa e vide, poco distante, una sorta di tozzo insetto alato, traslucido e luminescente che la stava fissando. In altri tempi, quella vista l’avrebbe atterrita, ma adesso l’ipotesi di essere mangiata le sembrava preferibile a quella di una lenta agonia. Inoltre, l’insetto le era vagamente familiare, anche se non riusciva a ricordarsi perché.
«Ti ricordi di me?» chiese l’insetto.
«Mi sembra di sì,» rispose la formica. «Ma è la memoria di un tempo lontano. Aiutami a ricordare.»
«Sono passati quasi dieci anni,» disse l’insetto. «Fu proprio qui che ci vedemmo per l’ultima volta, solo che allora ero io, che stavo per morire. Ti chiesi del cibo e ti pregai di farmi entrare nel formicaio a scaldarmi un po’, ma tu mi rispondesti: "Hai cantato per tutta l’estate, adesso balla!"»
«Tu sei la cicala?!» domandò stupita la formica.
«In persona,» rispose la cicala. «O meglio: in spirito, dacché sono morta.»
La formica sentì un brivido scorrerle giù per la schiena
«E sei tornata dall’Aldilà per guardarmi morire?» chiese.
La cicala scosse lentamente il capo.
«No,» disse. «Sono tornata per farti una domanda.»
«E cos’è che vuoi chiedermi?»
«La domanda te la farò quando starai per morire, ma non preoccuparti: non ci vorrà molto; il tuo cuore non batterà ancora a lungo..»
«Sì, ma il mio cuore batte ancora,» rispose beffarda la formica. «E ha battuto per molto tempo, dopo che il tuo ha smesso di farlo. Ho vissuto più di dieci anni, mentre la tua vita è durata solo un’estate.»
«La mia vita adulta è durata solo un’estate, ma come larva ho vissuto sotto terra per più di dieci anni. Più di dieci anni sepolta viva, al buio, sfuggendo alle talpe e costretta a scavare la terra intorno a me per poter fare anche il più piccolo movimento.»
Con un colpo d’ali, la cicala si portò in un punto dove la formica poteva vederla meglio e riprese a parlare.
«Poi, un bel giorno, qualcosa dentro di me mi ha spinto a scavare verso l’alto invece che in orizzontale. Il mio corpo cominciava lentamente a mutare ed era sempre più difficile muovermi nel terreno, ma non mi sono arresa: ho scavato e scavato fino a che non ho raggiunto la superficie e allora..»
La cicala volse lentamente la testa prima da un lato e poi dall’altro, come a indicare tutta la Natura circostante.
«..Ho visto tutto questo.»
Tacque per qualche istante, lasciando che le sue parole decantassero nella mente della formica, poi aggiunse:
«Riesci a immaginare cosa si provi a vedere il cielo, gli alberi e i prati dopo più di dieci anni passati sotto terra? cosa significhi poter volare per chi ha vissuto strisciando? Certo: ho cantato per tutta l’estate, ma come avrei potuto non cantare la mia gioia per essere rinata in questo luogo meraviglioso?»
La formica riusciva a malapena a respirare. Con orrore si accorse di non sentire più nemmeno la coppia di zampe centrali. Raccolse le ultime forze e chiese:
«Vieni al punto: cosa vuoi da me?»
«Voglio che tu, prima di morire, ti volti a guardare il cielo e le stelle; quel cielo e quelle stelle che hai ignorato per più di dieci anni, lavorando a testa bassa per la tua regina.»
«Non mi convincerai di aver sbagliato,» disse con un filo di voce la formica. «Ho fatto quello che era il mio dovere: ho contribuito al benessere del formicaio.»
«È vero, hai ragione,» disse la cicala. «Hai fatto il tuo dovere, così come io ho fatto il mio: su questo non v’è dubbio; ma adesso che nel tuo cuore restano meno battiti che giorni in un’estate, guarda per la prima e ultima volta lo splendore del cielo sopra di te e rispondi alla mia domanda: sei ancora convinta che, fra di noi due, sia stata tu, quella più fortunata?»

27-05-2015