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Carthago Dilecta Est 2008

Catone aveva ragione

È una cosa ben strana, ciò che noi facciamo: questo nostro andare a vela. Pensateci bene: se qualcuno vi proponesse di restare per due giorni e due notti su una panca in mezzo al mare, esposti al sole di giorno e all’umido di notte, accettereste? Non credo.

La maggior parte di voi scaccerebbe il malcapitato a male parole; altri, i più astuti, chiederebbero un compenso talmente alto da scoraggiarlo. Al contrario, se vi si chiedesse di partecipare a una regata, probabilmente accettereste con entusiasmo, anche se sapete bene che proprio di questo si tratta: passare ore e ore seduti in falchetta, con il sole che ti lessa le ginocchia di giorno e le vele che ti inzuppano di condensa la notte; pisciando fuori bordo, cacando di bolina, dormendo quando si può, dove che sia. È una cosa ben strana, questo lasciarsi andare in balìa di forze che non abbiamo modo di controllare, in un misto di timore e di fiducia, confidando solo in una loro supposta, ma non sempre provata, benevolenza nei nostri confronti e nella nostra capacità di leggere i segni premonitori del peggio in arrivo. Strana, ma molto antica.

Lo so: l’anno scorso era meglio. Il mio resoconto della Carthago 2007 parlava di donne e di culi, ma nel frattempo è successo tutto. Mentre, incastrato fra la battagliola e le sartie, cerco le Pleiadi sopra al chiarore di Trapani, ciò che penso è: “Ho un anno di più, e qualcosa in meno: tu”, ma la gnocca non c’entra. Magari fosse.

Di contro, a essere onesti, devo ammettere che non ho solo un anno, di più, rispetto al me stesso del 2007. Ho un nipote, tanto per dirne una, che a soli sei mesi è già al timone di un ketch nei fiordi della Norvegia, bello di zio, e tante miglia in più sotto il sedere. Non tantissime, ma nemmeno poche. E, diciamocelo: quest’anno, dal punto di vista velistico, non poteva andare meglio. Che quando Luigi mi ha chiamato, alle sette di mattina di sabato, dicendomi: “Metti due magliette in una sacca e vieni al circolo, facciamo la Carthago”, io giuro che davvero volevo fare solo la tappa di avvicinamento a Ventotene, tant’è che nella sacca suddetta ho messo solo due magliette e due paia di bermuda, lasciando a casa la cerata, la mia bellissima torcia a LED superpotente e la felpa per la notte. Poi, però, ho visto la barca.

Cerco una posizione che mi consenta di dormire un po’: tiro su le gambe e poggio la testa sui piedi di Bernardo (l’omonimia con Motissier è tutt’altro che casuale). Di scendere sotto coperta a dormire, non se ne parla nemmeno: Sergio è stato chiarissimo su questo punto. La notte scorsa, una distrazione ha annullato tutto il vantaggio che avevamo accumulato sui nostri inseguitori e le calme di vento che abbiamo incontrato avvicinandoci alla Sicilia non ci hanno permesso di recuperare; perciò, da questa mattina, a bordo è stata istituita la legge marziale: tutti in falchetta, sottovento, fino a nuovo ordine. I bisogni primarî, quali che siano, devono essere soddisfatti a turno, uno per volta.

Non mi intendo di politica, ma non credo che esistano sistemi dittatoriali paragonabili a quello che si crea a bordo di una barca da regata. D’accordo: lo skipper non ha diritto di vita e di morte sul suo equipaggio, ma sicuramente lo può lasciare arrostire al sole, se questo fa guadagnare mezzo nodo di velocità alla barca. Può perfino impedirgli di alzarsi in piedi, se lo ritiene opportuno, e non credo che nemmeno Stalin o la Banda dei Quattro si siano mai spinti a tanto. Curioso, come questo sport piaccia tanto alla gente di sinistra.

Senza accorgermene, mi addormento e quando mi sveglio Bernardo non c’è più. Nemmeno il vento, se è per questo. Ho giusto il tempo di scoprire che Marettimo è sempre lì dove l’avevo lasciata, poi dobbiamo ammainare il fiocco e issare il windseeker, una vela leggera, poco più grande di una bandana, da utilizzare quando il vento non c’è. Viriamo, lentamente e faticosamente, ma sull’altro bordo le onde ci rallentano, così viriamo di nuovo. Non so quanto tempo passa prima che la barca riprenda a camminare, non so nemmeno se riesco a riprendere e sonno e, se sì, per quanto; a un certo punto però, sento Marzio (da quante ore è al timone?) che chiede di issare il fiocco, e so che ce l’abbiamo fatta.

Dopo un tempo imprecisato, il sole sorge ancora e Marettimo, se Dio vuole, scompare all’orizzonte. Giuriamo che nessuno di noi ci andrà mai in vacanza. Il vento gira e ci permette di fare una rotta diretta verso Capo Bon da cui deviamo solo un paio di volte, per schivare le petroliere e i porta-container che transitano nel canale di Sicilia. Entrati nel Golfo di Tunisi, mentre ci avviciniamo a Zambra, una famiglia di delfini viene a fare il suo show sotto alla nostra prua. Malgrado la legge marziale sia momentaneamente sospesa, io resto al mio posto (in falchetta, sottovento), non tanto per devozione alla causa, quanto per antipatia nei confronti degli odontoceti in genere, dopo la strizza che mi hanno fatto prendere al largo di Capri, un paio di mesi fa.

Il navigatore satellitare dice che arriveremo a Sidi Bou Said intorno alle sette di sera, ma pecca di ottimismo: a mano a mano che ci avviciniamo a Zembra, il vento cala di intensità e quando abbiamo l’isola al traverso, finisce del tutto. Come in un deja-vu, ripetiamo i gesti e le manovre tentate nella notte, ma con minor fortuna: le onde adesso arrivano dalla stessa direzione del vento e si mangiano quel poco di apparente che riusciamo a generare andando di bolina. Ma teniamo duro e lentamente - molto lentamente - riusciamo a riprendere un poco di abbrivio. Issiamo lo spinnaker, e, per un po’, sembra che tutto si sia risolto. Viaggiamo con vento in poppa a 5/6 nodi e quando mancano meno di quattro miglia al traguardo diamo perfino il via a una stonata retrospettiva corale delle canzoni degli anni ’60: Bruno Martino (Estate, E la chiamano estate), Fred Bongusto (Spaghetti a Detroit) e La notte di Adamo, che, incredibilmente, il nostro ventiquattrenne numero due conosce a memoria.

Mancano meno di quattro miglia al traguardo, ma ci metteremo quasi quatto ore a percorrerle, perché il vento, sotto Sidi Bou Said, cala di nuovo e ci costringe a strambare tre, quattro volte di seguito, praticamente in assenza di vento. Sergio e Marzio si alternano al timone; Simone è alla scotta dello spinnaker da prima del tramonto; io, quando non c’è da fare a prua, tengo aperto il boma. Tutti gli altri, tanto per cambiare, sono in falchetta, sottovento. A un certo punto, da sotto coperta, Lele, il nostro ufficiale di rotta, ci dà la prima buona notizia da quando è salito a bordo: all’arrivo manca solo un miglio. Guardo l’indicatore della velocità e penso: “Bene: in due ore dovremmo farcela…”, ma sono il solito pessimista: dopo solo un’ora, vediamo un lampo bianco alla nostra destra e sappiamo che è finita, che siamo arrivati. Secondi.

Quando entriamo nel porto di Sidi Bou Said e vedo Grifone III ormeggiata in banchina, capisco il vero significato della parola: “ingiustizia”. Sì, perché è davvero un’ingiustizia che dei velisti di valore, come quelli dell’equipaggio di Grifone, debbano perdere il loro tempo in regate minori come la Carhtago, quando sarebbe giusto che fossero alle Olimpiadi, o su qualche barca di Coppa America. Ma ci pensate? Con una vecchia barca che pesa trenta tonnellate sono riusciti ad arrivare prima di una barca che ne pesa solo otto e che ha vinto il campionato del Mondo IMS, dandole un distacco di ben quattordici ore: più di quanto, su una distanza simile, sia riuscita a infliggerle Alfa Romeo. E non crediate che noi si sia andati piano: Aki, il terzo arrivato in tempo reale, entrerà in porto solo la mattina dopo, verso le nove e mezza; il resto della flotta, ancora più tardi. Una prestazione incredibile, quella di Grifone: davvero. Incredibile, perché, fino al tramonto della prima giornata, erano rimasti indietro rispetto al gruppo di testa (un’issata di bugna dello spinnaker gli aveva atto perdere un po’ di tempo in partenza da Ventotene) e quindi, per fare il tempo che hanno fatto, devono essere stati così abili da individuare e sfruttare l’unico corridoio di vento a venti/venticinque nodi presente in un Tirreno funestato da una generale mancanza di vento. Un vento che non era stato previsto da nessuno e che, soprattutto, non è stato rilevato da nessuno: regatante, meteorologo o bagnante che sia.

Sergio ci ripete spesso che: “Le regate si vincono di notte”. Grifone ce lo ha dimostrato per il terzo anno consecutivo. Bravi!

08-08-2008