Arrivati questa mattina, con il nuovo treno da 400 chilometri all’ora, che è stato inaugurato nei giorni scorsi, appena in tempo per essere visto e/o utilizzato da qualcuno dei visitatori dell’Expo.
Rapido giro panoramico del lago (uno di noi chiede a una delle professoresse cinesi: “Quanti abitanti ha, questa cittadina?” al che, lei: “Circa otto milioni”), poi, dopo un ottimo pranzo, i nostri ospiti ci portano in albergo per lasciarci riposare un po’ prima della lezione/conferenza di oggi pomeriggio. Per la prima volta da quando siamo qui, è bel tempo e io non me la sento di passare la giornata in un’aula universitaria dove non servo a nulla e capisco ancora di meno, così mi cambio ed esco a fare due passi.
Per motivi che sarebbe lungo dettagliare prima della fine del mio sigaro, i “due passi” diventano una camminata di quattro ore, che per lo più si svolge all’interno di un centro commerciale alla ricerca, prima, di un bagno e poi di una cassa che accetti la mia carta di credito.
Hangzhou, per quel poco che ne ho potuto vedere, mi ha confermato la mia prima impressione sulla Cina: un luogo di grandi contrasti, che in meno di vent’anni si è completamente trasformato e che alle volte stenta a reggere il passo con sé stesso.
Ci sono due cose che ho visto oggi, che mi sembra possano simboleggiare questo stato di cose: la prima è un mendicante senza gambe dal ginocchio in gi, che camminava a quattro zampe, le mani infilate in un paio di scarpe, davanti alle vetrine della concessionaria Bentley; la seconda è un gruppo di persone, uomini e donne di tutte le età, che, sul lungolago, ballavano tutti insieme, al suono di una musica da discoteca tenuta a basso volume per non disturbare una cantante tradizionale che si esibiva poco pi in là.
Mi piace questo Paese, mi piace la sua gente, ma se da un lato mi spaventano le difficoltà che hanno dovuto affrontare, mi spaventa ancor di più quello che potrebbero diventare.
Come noi.