Da un paio di giorni sono in Cina. Il primo approccio con questo Paese, lo ammetto, non è stato piacevole, dacché mi hanno fermato al controllo doganale fra lo sbarco a Pechino e l’imbarco per Shanghai e mi hanno sequestrato il mio accendino da sigaro, un Dupont jet-flame piuttosto costoso, che non so bene se e quando mi verrà restituito.
È stato un episodio seccante, ma anche se non capisco come si possa dirottare un aereo con un accendino (e, soprattutto, non capisco come mai, quando era ancora possibile portarli con sé a bordo, i dirottatori si ostinassero a utilizzare bombe e armi da fuoco costose e di difficile reperimento, laddove sarebbe bastato un qualunque accendino Bic per ottenere il medesimo risultato), devo dire che preferisco un controllo di sicurezza dove ti controllano davvero, piuttosto che una farsa come il controllo in partenza a Fiumicino, che serve solo a farti perdere tempo.
I militari alla dogana di Pechino avevano i loro ordini e li hanno rispettati: la colpa è mia, che potevo mettere l’accendino nella valigia invece di portarmelo nel bagaglio a mano.
Anche se non dovessi più vedere il mio Dupont, nei momenti tristi, per rallegrarmi l’animo, potrò sempre ripensare alla scena del poliziotto che, per capire come si accendesse, per poco non si è abbrustolito il naso con la fiamma.
La cosa più divertente è stata che non mi ha arrestato.
A parte questo, l’unica cosa negativa che posso dire del Popolo Cinese è che, quando sono in fila, ti spintonano senza pietà e non chiedono scusa nemmeno se ti sbattono per terra; per il resto, sono (o, quanto meno, mi sembrano) persone intelligenti e operose, con un senso dello Stato che noi Italiani non abbiamo e non so se avremo mai, tant’è che ieri, commentando uno dei grandi svincoli che smistano il traffico in ingresso alla città, uno di noi ha proposto di appaltargli la realizzazione dell’autostrada Napoli-Reggio Calabria, per vedere se così la si riesce a completare.
Peccato fosse solo una battuta.
Per quanto ho visto finora, non posso che parlare bene di questa città e dei suoi quasi venti milioni di abitanti.
Shanghai, quando siamo arrivati, sotto gli strascichi del tifone che ha devastato il sud del Paese, sembrava di essere in una scena di Blade Runner: ovunque si girasse lo sguardo c’erano grattacieli dalle forme più improbabili, tutti illuminati da insegne pubblicitarie; il traffico era caotico, ma nel complesso, più spedito di quello romano; le rive del fiume, malgrado la pioggia e il vento, erano comunque gremite di persone che andavano e venivano sotto i loro ombrelli.
Attraversando il Nanpu Bridge, da un lato e dall’altro, si vedevano le strutture illuminate dell’Expo: la grande piramide rovesciata dei padroni di casa; il Grande Fuffo della rappresentanza inglese, il padiglione cilindrico della Svizzera, tutto punteggiato di minuscole luci azzurre, l’auditorium a forma di disco volante e tutta una miriade di altre sorgenti luminose non identificabili.
Tornato in camera, dopo un’ottima cena in un ristorante affacciato sul Bund, il lungo-fiume più fichetto e modaiolo, avrei voluto collegarmi a Internet e raccontare ai miei amici di come un Paese che mi aspettavo ancora in bianco e nero, in realtà fosse a colori e colori sgargianti; di come, per certi versi, la Cina sarebbe un buon esempio da seguire, o un traguardo cui tendere.
Non ho potuto farlo.
Il mio entusiasmo si è infranto contro il divieto, per tutti i computer che si collegano alla Internet da questo Paese, di accedere ai social network come Facebook, Twitter o ai server di Blogspot.
Un vero peccato.