Martedì, 5 Ottobre 2004
Poi dicono a me, che sono competitivo!
Questa mattina, sono andato a fare un giro in bicicletta con il mio amico Paolo.
Abbiamo percorso tutta la ciclabile verso il mare, fino al gatto di Ciccio.
Da lì, siamo passati sull’altra sponda del Tevere e, attraverso una serie di strade (sterrate) fra i campi, abbiamo raggiunto Ponte Galeria.
Reintegrato un po’ di potassio mangiando una banana e fatto rifornimento di aranciata, siamo tornati indietro.
Il fattaccio è avvenuto un po’ prima di Tor di Valle, quando, di nuovo sulla pista ciclabile, stavamo viaggiando a circa 26 Km/h e ci siamo visti sorpassare da un tipo sulla cinqantina, su una bicicletta da corsa.
Fossi stato da solo non sarebbe successo niente (fino ad allora, avevamo percorso un po’ meno di quaranta chilometri, venti dei quali sullo sterrato, e cominciavo ad accusare una leggera stanchezza), ma sapevo che Paolo non avrebbe preso bene l’affronto.
Forte della sua lunga esperienza di ciclismo su strada (quando lo conobbi, ventidue anni fa, era arrivato in bicicletta da Vitinia a Ciampino), il mio amico ha accelerato e si è incollato alla ruota di dietro dell’incauto sorpassatore.
Io ho fatto altrettanto.
Abbiamo giocato al trenino dell’amore per circa un minuto, poi, Paolo ha allargato e ha restituito il sorpasso.
Io ho fatto altrettanto.
In scia alla locomotiva, ho guardato il contachilometri: trentasette chilometri all’ora, che sono diventati quaranta alla fine della prima discesa.
Mentre attaccavamo l’ultimo strappo in salita prima del rettilineo dell’ippodromo, si è sentita alle nostre spalle la voce dell’incauto:
- Ma andate sempre così?
Gli fa eco quella di due tizi che vengono in senso opposto:
- Aho, ‘sti due nun li ferma nessuno…
Gasato dall’ammissione di inferiorità del nemico e dalla, pur se sardonica, constatazione del pubblico, decido di dare il cambio a Paolo in testa al serpentone, ma senza effetto scia reggo poco, così gli faccio cenno di passare e rallento il ritmo.
- Avanti, dobbiamo staccare quello - mi sibila Zanna Bianca, e riprende il comando della muta.
Raccolgo le mie ultime forze e mi metto in scia: in fondo, è una bellissima giornata per morire.
Quando finalmente rallentiamo, quattro chilometri dopo, l’incauto non è più in vista.
- Le banane mi sa che le abbiamo digerite… - è tutto quello che riesco a dire.
La sessione odierna, giunta dopo un pranzo con Ciccio — di cui riferirò domani — è stata decisamente peculiare: omogenea nel colore (marrone) e nell’afrore (integerrimo e durevole), si è distinta per la consistenza del prodotto che è variata dal solido del primo tratto, al fangoso del finale.
Il mio fuzzy-peso-Goldberg, questa mattina parlava di 71,8 chilogrammi, ma al ritorno dai 52 Km di test del mio apparato cardiovascolare, era sceso a 70,4.
Il solitario non mi ha dato le stesse soddisfazioni della bicicletta, ma la mia media è risalita a 14,80%.
Sabato, 9 Ottobre 2004
Che demo da fa’.
Finalmente abbiamo registrato il primo demo dei Capone, in una vera sala di registrazione, con un vero fonico, pagato con veri soldi.
L’emozione causata dall’evento ha sconvolto i miei ritmi circadiani, privandomi di argomenti specifici, così, mentre dalla finestra aperta sul buio della notte capitolina mi giungono i fantasiosi conati di un condòmino non identificato (spero sia il figlio del mio vicino di casa), vi diletterò con una breve descrizione del luogo dove sono stato rinchiuso dalle 10:00 alle 20:30 di oggi.
Nei filmati che si vedono su MTV, le sale di registrazione sono sempre posti fichissimi, luminosissimi e pieni di donne, che si trovano in località da sogno, tipo isole caraibiche, montagne peruviane, brughiere irlandesi eccetera. Non stento a credere che in America o al nord usi così, ma qui a Roma, al Prenestino, le cose vanno in maniera leggermente differente.
La nostra sala prove è uno scantinato tenebroso che puzza di umido quando va bene, di fogna altrimenti, e si trova in un’area in cui si sta svolgendo un esperimento comunale segretissimo, atto a determinare il numero massimo di etnìe che si possono far convivere in un territorio limitato senza scatenare guerre religiose.
Femmine ne capitano raramente e quelle poche volte o si tratta di paradossi morfologici o delle fidanzate/mogli dei gestori. Le donne che passano davanti all’ingresso dello studio, invece, non sai mai se sono davvero donne o se sono travestiti; di solito, se sono bone, sono travestiti.
L’unico bagno disponibile è discretamente lercio, ma in compenso la porta, che ha la serratura rotta e le cerniere inclinate, è sempre aperta e la gente può vedere che non sei tu a sporcare.
Se ti fa schifo fare pipì lì, o se ti vergogni, puoi uscire e andare a farla al bar.
Nella zona intorno allo studio, ci sono tre bar: uno è il classico bar di quartiere, accogliente e immutato dal 1952, ma è a conduzione familiare e chiude presto; il secondo non è molto accogliente, ma il padrone è simpatico; il terzo è da evitare, per le seguenti ragioni: a) il padrone è scorbutico e cerca di fregarti sul resto; b) le cameriere hanno sempre dei tagli sanguinanti sulle dita; c) i clienti o sono extracomunitari ubriachi o sono malavitosi nostrani.
Oltre che per queste ragioni, io evito il terzo bar perché ogni volta che vado a prendere un caffé portandomi dietro la chitarra (nel portabagagli dell’auto non c’entra e non mi fido a lasciarla sul sedile posteriore), incontro un tipo con faccia appunto da malavitoso, che mi chiede di fargli vedere che chitarra è e quanto costa.
Fino ad ora sono riuscito, con una scusa o con l’altra, a riportare a casa i miei 1.950 Euro di Martin, ma non voglio abusare della mia buona stella.
Mi sembra di avervi detto tutto.
Se non ci credete, una di queste sere, veniteci a trovare.
Domenica, 31 Ottobre 2004
“Tu vo’ fa’ l’americano”.
Ieri, a Gaeta, nelle acque antistanti la spiaggia dell’Ariana, giovani aborigeni attendevano improbabili onde oceaniche sulle loro tavole da surf. Oggi, a Roma, nei vicoli del centro, aborigeni ancora più giovani si aggirano mascherati da spettri, suonando ai citofoni e attendendo improbabili “dolcetti” dai residenti.
Ai tempi miei, si chiamava “chitarone” e non era una cosa tanto bella, da farsi.
Oooops!
Magari non ci crederete, ma mentre mi preparavo a una tirata contro la pigoristica imitazione delle usanze nordamericane (e in particolare contro quei giovani teppisti che cinque minuti fa hanno suonato ai citofoni di tutto il palazzo) mi sono ricordato una cosa.
Erano gli anni settanta e d’estate si andava in vacanza a Serapo, la spiaggia più grande di Gaeta.
Nel post-prandiale, quando la sorveglianza materna si allentava, scalavamo il pendio in fondo alla spiaggia, arrivavamo sulla strada, suonavamo al campanello della casa che sta sulla curva prima di arrivare al lungomare e poi scappavamo a piedi nudi sull’asfalto rovente, ché non ci aspettavamo dolcetti, come ricompensa..
Comunque.
A questa intensa opera di recupero memoriale se n’è affiancata una, altrettanto intensa, di recupero fecale.
L’atteso incremento del mio prodotto interno lordo è stato accolto favorevolmente dai mercati, ma, in barba alle teorie degli economisti, ha portato a un ribasso dell’indice fuzzy-Goldberg che ha chiuso oggi a 71,3. In controtendenza i titoli olfattivi (che si sono dimostrati piuttosto intensi e durevoli) e la percentuale di successo a Solitario (+15,19%).