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Saggi

Amore e Arte

Questo articolo esaminerà le affinità fra l’Amore e l’Arte. La prima e più evidente affinità fra questi due termini sono le lettere iniziali e finali (“A” ed “E”), ma indulgere su questa similitudine ci porterebbe inevitabilmente a considerare la parola: anale, deviando non poco dal percorso logico che desidero intraprendere, quindi la tralasceremo.

Un’altra affinità fra Amore e Arte è che sono termini che tutti utilizzano, ma che solo pochi sanno definire. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti, nomina più volte l’Arte, ma non dice mai esplicitamente che valore abbia per lui questo termine e, quando lo fa implicitamente, è contraddittorio:

Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo «dono», tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. … Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è1.

Nel primo caso, l’Arte è l’inno di lode che l’Artista, grato, eleva a Dio; nel secondo caso, l’Arte è espressione dell’intimo essere dell’Artista. Come dire che Beato Angelico e Munch sono la stessa cosa; non due facce della stessa medaglia — come in effetti è — ma la stessa, identica faccia.

Molto più precisa, la concezione dell’Arte di Paolo VI:

È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa prerogativa, nell’atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito: di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo.

Alfred E. Neuman (o Housman?) disse:

Non so cosa sia la poesia, ma so riconoscerla quando la sento.

Molti pensano che l’Arte sia così: un concetto auto-esplicativo, che non occorre definire. È sbagliato: tutte le parole, anche quelle più comuni, possono essere interpretate in maniera differente. Così come la parola: pesce, per quanto banale, non ha lo stesso valore per un biologo marino, per un ecologista o per un pescatore, anche la parola Arte non ha lo stesso significato per uno storico dell’Arte, per un gallerista, per un artista o per un Papa.
Per non correre il rischio di essere malinteso, quindi, la prima cosa che farò è di definire il mio concetto di Arte.

Nella prima stesura di questo testo, avevo scritto che:

l’Arte è la traccia del cammino dell’Uomo verso Dio

specificando poi che con il termine: “Dio” (altra parola interpretata in maniera differente da ciascuno di noi), intendevo il senso dell’Esistenza. L’idea che l’Arte fosse il riflesso dell’investigazione dell’Uomo sul mistero dell’Esistenza non era malaccio, ma aveva due difetti: il primo era che non specificava quale fosse, ‘sto senso dell’Esistenza, il che rendeva l’Arte un girovagare potenzialmente casuale; il secondo era che lasciava fuori le crostate di Gianluca Fusto. Ho per ciò modificato la mia definizione di Arte in:

L’Arte è la traccia del cammino dell’Uomo verso la Perfezione

Non è una contraddizione, ma una precisazione, dato che credo che la ricerca della perfezione sia, effettivamente, il senso dell’Esistenza.

Chiarita la questione lessicale, proviamo a verificare la correttezza della mia definizione di Arte applicandola alle diverse forme d’espressione artistica che si sono succedute nel tempo.
Partiamo dall’inizio, ovvero dai graffiti nelle grotte del Paleolitico. Per l’uomo delle caverne, Dio, ovvero il Senso della Vita è la caccia, da cui dipende la sua sopravvivenza; la sua Arte, quindi, è incentrata sulle scene di caccia. Non sappiamo quale fosse lo scopo di questi dipinti: se avessero valore propiziatorio, narrativo, educativo o tutte e tre le cose insieme, ma poco conta: ciò che importa è che chi le ha dipinte ha raffigurato ciò che per lui era più importante. Guardando bene l’immagine qui sotto, potete notare una cosa: mentre le figure che sembrano cavalli hanno le zampe dritte e perpendicolari al terreno, la bestia cornuta ha le zampe piegate in avanti. Se, come mi piace pensare, si trattava di una preda uccisa, possiamo pensare che questo dipinto raffiguri anche un altro Mistero dell’Esistenza, ovvero la morte.

Passano gli anni, (circa 50.000), la società si evolve, la pesca e l’agricoltura consentono all’uomo una dieta più variata. Il benessere e la sopravvivenza della comunità non dipendono più dalla disponibilità di prede, ma dall’azione apparentemente casuale degli agenti atmosferici: le piene del Nilo, il vento, le onde del mare. L’immaginazione dell’uomo incarna queste forze — allo stesso tempo reali e misteriose — in altrettante divinità potenti e capricciose. L’arrivo di questi nuovi déi — siano essi la personificazione di forze naturali o la divinizzazione di persone come l’Imperatore o il Faraone — fa un gran bene all’Arte che, chiamata a rappresentarli (anche qui, un po’ per venerazione, un po’ per accaparrarsene i favori), raggiunge livelli altissimi sia nell’àmbito delle arti figurative che nella letteratura.

Non a tutti le cose andavano altrettanto bene, però: il secondo Comandamento delle Leggi Mosaiche, infatti, impediva al popolo di Israele di raffigurare la Divinità. Questa è una buona idea per un popolo nomade, che avrebbe grosse difficoltà non solo a procurarsi un blocco di marmo, ma anche a portarselo dietro nelle sue peregrinazioni, ma è piuttosto limitativo per lo sviluppo delle arti figurative, tant’è che per trovare un pittore o uno scultore famoso che sia anche ebreo dobbiamo arrivare quasi ai giorni nostri, ovvero a Chagall.
La stessa regola fu seguita anche dai Cristiani, i quali, fino al 787, rappresentarono le divinità con dei simboli: i pesci, il pane e il pastore citati da Wojtyla nella sua Lettera:

Chi non ricorda quei simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica? Il pesce, i pani, il pastore, evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.

Il Concilio di Nicea, però, concesse agli artisti la facoltà di rappresentare le divinità e consegnò loro un nuovo Pantheon composto non solo dalla Trinità e dalla top-model per eccellenza, la “tutta bella” Maria, ma anche da una legione in continua crescita di Santi e Beati.
Questa scelta, tanto lungimirante quanto in apparente contrasto con il secondo Comandamento , diede il via a un nuovo processo di rinascita delle Arti figurative che si protrasse per circa mille anni. Buona parte delle opere prodotte in questo periodo aveva uno scopo prevalentemente educativo (un approccio funzionale molto vicino a quello espresso da Wojtyla); a fianco a queste, però, troviamo anche delle opere che non hanno solo una funzione didascalica, ma esprimono la tensione dell’Artista verso un Dio che, per quanto incarnato, rimane pur sempre misterioso.
Non sempre, però, questa tensione ha il carattere di gioiosa riconoscenza ipotizzato da Wojtyla o l’algida compostezza degli archi a sesto acuto del Gotico; anzi, nella maggior parte dei casi si tratta di una tensione dolorosa e drammatica, come nelle statue dei Prigioni di Michelangelo; una tensione ben differente da quella dell’Adamo della Cappella Sistina che, sì, protende il suo dito verso Dio, ma lo fa con indolente passività.

La tensione dell’Uomo verso Dio non lascia tracce solo nell’opera degli artisti, ma spesso anche nelle loro vite. Così come le figure dei Prigioni sono intrappolate nella pietra ancora grezza, così l’Artista è intrappolato nella sua forma umana che gli impedisce di arrivare a Dio. Simile a un bambino che indossi i vestiti dei genitori, cerca di imitarlo dando forma alla materia, ma non può né creare (in senso stretto, ovvero generare dal nulla) né dare la vita alla materia inanimata. Alcuni artisti riuscirono a venire a patti con questa limitazione, altri no e vissero vite spesso brevi e travagliate che però, in virtù della definizione che abbiamo dato all’inizio, possiamo considerare come delle forme sublimate di Arte.
Circa un migliaio di anni dopo Nicea, succede una cosa curiosa: proprio mentre i fisici cominciano a convincere l’uomo di non essere il centro dell’Universo, i filosofi svolgono un’azione opposta; aboliscono il concetto di Dio e stabiliscono che il senso dell’esistenza dell’Uomo è l’uomo stesso, generando un corto-circuito etico che trasforma il cammino dell’Uomo verso Dio in un girotondo sterile e la sua traccia (l’Arte, come abbiamo stabilito all’inizio) in un circolo chiuso simile all’ Enso giapponese, ma privo del suo significato.

Non a caso, la prima e principale conseguenza di queste aberrazioni filosofiche è la cosiddetta Rivoluzione Francese: mentre per i fisici la rivoluzione è la rotazione di un corpo celeste attorno a un altro corpo, ovvero un percorso chiuso che torna ciclicamente al punto di partenza, per i filosofi la rivoluzione è un sovvertimento dello status quo. Il Concilio di Vienna, nel 1814, dimostrò quale definizione fosse quella corretta.
Affermare che il senso dell’Esistenza non è Dio, ma l’Uomo rende paradossale la definizione che abbiamo dato del termine Dio, perché se Dio è il senso dell’esistenza, dire che l’Uomo è il senso dell’esistenza equivale a dire che l’Uomo è Dio e, allo stesso tempo, che il senso dell’esistenza non è il senso dell’esistenza. Anche in questo scombussolamento semantico, però, la nostra definizione di Arte mantiene il suo valore, perché effettivamente, da questo periodo in poi, l’Arte dismette i suoi soggetti divini e comincia a ritrarre persone comuni: bagnanti domenicali, ballerine, mangiatori di fagioli, amanti di ingegneri, ecc.
Privata della sua tensione metafisica, l’Arte si trasforma così in una mera questione sensoriale: una pittura dell’impressione che invece di espandersi verso il Tutto, collassa su sé stessa. Se togliete da un quadro di Van Gogh la vita di Van Gogh, ciò che vi rimane è solo una tela con sopra delle figure colorate: un piacere sensoriale privo di qualsiasi significato. Con questo non voglio dire che, dal XVIII secolo a oggi non si sia più prodotta Arte, ma solo che, per lo più, lo si è fatto in maniera implicita, inconfessata. L’Artista parla a un Dio di cui non riconosce l’esistenza, ma di cui non può fare a meno. Le sue opere ricordano perciò la radice quadrata di -1: qualcosa che si può raffigurare in un piano cartesiano, ma che per essere calcolata richiede l’accettazione di un paradosso.
La conseguenza ultima di questa deriva illuministica è che oggigiorno si definisce comunemente “arte” tutto ciò che è genericamente “bello”, ovvero tutto ciò che impressiona favorevolmente i sensi. Si definisce altresì “arte” tutto ciò che si suppone creato da un artista. Si definisce infine “arte” tutto ciò che la maggior parte delle persone definisce: “arte”. La pietanza è buona? è arte. Il film aveva delle belle inquadrature? è arte. Il quadro è di un pittore famoso? è arte.
Fregnacce.
Una pietanza gustosa è una pietanza gustosa. Un film con delle belle inquadrature è un film con delle belle inquadrature. Un quadro di un pittore famoso è un quadro di un pittore famoso. Nessuno di questi attributi, di per sé, qualifica l’arte-fatto come Arte: famoso, bello, gustoso, sono valutazioni soggettive e non possono essere utilizzate come metro per valutare le qualità artistiche di un’opera. Sarebbe come giudicare il valore di una casa in base a quanto ci piace: una considerazione perfettamente lecita dal punto di vista di chi vende o acquista, ma che non ha niente a che vedere con il prezzo di mercato dell’immobile.
Una casa ha un suo valore intrinseco, determinato dalle sue caratteristiche oggettive: collocazione, metri quadri, finiture, impianti eccetera. Possiamo venderla al doppio del suo valore perché le siamo affezionati; possiamo acquistarla al doppio del suo valore perché è la casa che sogniamo da quando siamo bambini, ma si tratta in entrambi i casi di una sopra-valutazione causata da fattori soggettivi che non ha niente a che vedere con il suo valore reale.
Così come avviene per le case, le barche o le automobili, il valore di un’opera d’Arte è dato dalle sue caratteristiche oggettive e dalla sua rispondenza a determinati criterî funzionali. Si pensa spesso che le opere d’Arte (e, per estensione, gli artisti) vivano in un mondo tutto loro, dove l’unico dovere sia la bellezza formale, ma non è così. Le opere d’arte (e, di conseguenza, gli artisti) hanno dei doveri ben precisi; se non assolvono a questi doveri, non sono opere d’Arte. Possono essere fatte ad arte, ma non sono Arte.
Se la semplice bellezza formale bastasse di per sé a fare un’opera d’Arte, allora sarebbe Arte anche la foto di una coniglietta di Playboy che si accarezza il pube: la foto — magari di un fotografo famoso — è sicuramente perfetta, la modella pure e l’immagine colpisce favorevolmente i sensi: cosa volete di più?
Mentre ci pensate, passiamo a fare qualche considerazione sull’Amore.

Anche Amore, come Arte è una parola che tutti utilizzano, ma che pochi sanno definire. Per evitare malintesi, quindi, vi dirò sùbito cosa intendo io per: Amore.

Amore è ritenere qualcuno o qualcosa più importanti di noi stessi

Anche in questo caso non pretendo che condividiate il mio punto di vista, ma solo che lo prendiate come riferimento per comprendere le affermazioni che farò in séguito.
In sostanza, io credo che ciascuno di noi agisca in base a quelli che Robert Pirsig definisce: “patterns of values” ovvero degli schemi di valori che determinano le nostre scelte. Uno schema di valori piuttosto noto è: Dio, Patria, Famiglia. Chi decide di adottare questo schema di valori, dovrà agire per il bene della sua famiglia, a meno che questo non contrasti con quello della Patria e per il bene della Patria a meno che questo non contrasti con il bene di Dio.
L’istinto di sopravvivenza — che, ricordiamolo, è qualcosa di molto più antico anche dell’Arte stessa —, solitamente, ci spinge a porre la nostra persona al vertice di questa piramide di valori, ma può capitare talvolta che eventi esterni modifichino questo stato di cose e pongano come nostro Bene supremo qualcuno o qualcosa che non siamo noi stessi. È il caso della guerra, che spinge i giovani a sacrificare la propria vita per il bene della Patria (Amor di Patria) o del Santo che preferisce morire piuttosto che abiurare la sua Fede (Amor di Dio) o del missionario che sacrifica la sua vita per aiutare i lebbrosi (Amore del prossimo). Esiste ovviamente anche il caso del genitore che si sacrifica per dare un futuro migliore ai suoi figli, ma lo tralasceremo perché non è in contrasto con il nostro istinto di sopravvivenza.

Nel suo libro: Il Gene Egoista, Richard Dawkins dimostra come l’amore che noi proviamo per i nostri parenti sia direttamente proporzionale al numero di cromosomi che condividiamo con essi e che quindi può essere riconducibile al desiderio primordiale di perpetuare il nostro patrimonio genetico. Questa interpretazione ribonucleica dell’amore funziona molto bene per i rapporti di sangue (padre/figlio, nonno/nipote, zio/nipote ecc.), ma non spiega l’amore fra mamma e papà o fra nonno e nonna — almeno, nelle famiglie che non ritengono l’incesto una pratica accettabile.
Il C’hi++, ovvero la metafisica-non-metafisica che sto elaborando ormai da una decina d’anni, ha una sua spiegazione per questo fenomeno, ma illustrarvela ci porterebbe fuori strada più che considerare l’aggettivo: anale; quindi, qui e ora, ci limiteremo a prendere atto del fatto che talvolta si possa decidere che al vertice della nostra scala di valori non c’è più il nostro personalissimo bene, ma quello di un altro individuo con cui condividiamo solo il patrimonio genetico proprio dell’Homo Sapiens.

Probabilmente ogni essere umano desidera o ha desiderato essere amato. Per certi versi, possiamo dire che l’amore — o meglio: il bisogno di amore — è la causa prima della maggior parte delle nostre azioni. Sfortunatamente, però, la maggior parte delle persone equivoca il concetto di Amore e lo confonde con altri moti dell’animo con conseguenze spesso nefaste. Ciò avviene perché, così com’è avvenuto per l’Arte, alcuni cattivi maestri hanno convinto le persone che l’Amore sia una sensazione ovvero un’alterazione della nostra coscienza che ha a che fare con i sensi: mi piace la sua voce (udito); mi piace il suo viso (vista); mi piace il suo profumo (olfatto) ecc. Si sente spesso parlare di amore a prima vista. È un ossimoro: o è amore o è a prima vista. Se è a prima vista può essere innamoramento o invaghimento o infatuazione, ma non Amore, perché l’Amore è un sentimento che si nutre di tempo. Ci vuole tempo, infatti, perché il nostro istinto di sopravvivenza decida di abdicare e di cedere il suo posto a un estraneo o a un’estranea. Oltre al tempo, occorrono dei motivi, e qui entrano in gioco i sensi. I sensi sono i mezzani dell’Amore: ci spingono a interessarci a una persona in particolare e a spendere con lei più tempo possibile creando quel patrimonio di momenti condivisi necessario alla nascita dell’Amore. È la massa inerziale del tempo trascorso insieme che permette all’Amore di superare ogni ostacolo. Una relazione basata sull’appagamento sensuale non ha questa forza.
La differenza che intercorre fra l’Amore e l’infatuazione è la stessa che c’è fra un Laser e un cabinato. Il Laser è una barca lunga 4,20 metri, che pesa circa 60 chilogrammi. Accelera molto rapidamente, ma altrettanto rapidamente rallenta se il vento cala; inoltre, non avendo una zavorra nella chiglia, con troppo vento o anche a causa di una manovra sbagliata, è molto facile che scuffi, ovvero che si capovolga, buttando in acqua il suo timoniere. Al contrario, il CAT 38 è un’imbarcazione cabinata di 11,5 metri che pesa 7.500 chilogrammi. È più lenta e accelera meno rapidamente del Laser, ma la stessa massa che ne rallenta l’avvio le permette di superare i cali di vento e, soprattutto, la mantiene dritta anche con venti molto sostenuti. Di contro, il CAT 38 non lo puoi caricare sul tettuccio della macchina come si fa con il Laser e, soprattutto, richiede molte più cure. Un Laser lo puoi abbandonare su una spiaggia per dei mesi (meglio se sotto un telone) e quando lo vai a riprendere sarà nelle stesse condizioni in cui lo avevi lasciato; un cabinato no: la chiglia si riempie di alghe, le cime e le vele si rovinano con il sole, l’interno della barca prende odore di muffa.
Possiamo utilizzare questa similitudine per descrivere i problemi legati alle relazioni affettive:

Tutti questi problemi potrebbero essere evitati se si facesse chiarezza sui diversi tipi di imbarcazione e sulle caratteristiche di ciascuna di esse; sfortunatamente però, poeti, cantori, filosofi e scrittori in malafede continuano a illudere le Bovary del Terzo Millennio con dei falsi miti, utili solo alle case discografiche e agli avvocati specializzati in Diritto di Famiglia:

Il Principe Azzurro: da un punto di vista femminile, questa è una scelta auto-lesionista perché i Principi rappresentano meno di un milionesimo della popolazione mondiale e, solitamente, si accoppiano con altri titolati per mantenere alto il quoziente di demenza della categoria. Le rare volte in cui il Principe decide di sposare Cenerentola, le probabilità che i due vivano per sempre felici e contenti sono inferiori alle probabilità che una zucca si trasformi in una carrozza; la storia di Diana Spencer è lì a ricordarcelo. Dal punto di vista maschile, di contro, la donna in cerca del Principe Azzurro è assolutamente da evitare perché la sua scelta, oltre a denotare una mentalità infantile, indica il desiderio di avere a fianco qualcuno che, come per magia, risolva tutti i suoi problemi senza che lei debba fare alcuno sforzo: il presupposto peggiore per una storia a lungo termine.

L’Anima Gemella: i cultori di questa perversione sono (stati) convinti che al Mondo esista UNA sola persona giusta e perfetta per ciascuno di noi: qualcuno con cui non discuteremo mai, che non ha nessun tratto caratteriale a noi inviso e con cui la vita sarà un continuo piacere. Continuamente alla ricerca della loro mezza mela, queste sfortunate creature vagliano i possibili candidati come bambini che setaccino un prato in cerca di un quadrifoglio, senza rendersi conto — colpevolmente — che i rapporti duraturi non si creano con due mezze mele, ma con una pera e un pezzo di formaggio.

L’amore eterno/incondizionato: la più nota e nefasta conseguenza di questo approccio ai rapporti di coppia è la frase:

Voglio che mi ami per come sono.

Un’affermazione che, in teoria, dovrebbe significare:

Non proiettare su di me le tue aspirazioni, come quelli che montano le minigonne e lo spoiler posteriore a un’utilitaria, ma accettami con i miei pregi e i miei limiti.

Molto spesso, però, il reale significato è:

Impara a convivere con i miei difetti, perché io non alzerò un dito per mitigarli.

Tutti questi approcci alla vita di coppia, in cui l’amore è visto come la cristallizzazione di un attimo perfetto ed eterno, tradiscono quella che io definisco La Sindrome da Telecomando, ovvero la pretesa che le cose avvengano indipendentemente dai nostri sforzi.

L’Amore non è un quadro puntillinista, ma un’opera in un continuo divenire, una Commedia dell’Arte basata su un canovaccio che ogni sera viene interpretato in maniera diversa in funzione dell’umore del pubblico e degli attori. Come l’Arte, l’Amore è un percorso di crescita, un’espansione allo stesso tempo dolorosa e dolcissima, che diventa annichilimento se invertiamo il senso del moto, focalizzandolo su noi stessi.

Arte e Amore sono due caratteristiche imprescindibili della Civiltà, entità immensamente più grandi delle nostre piccole e patetiche persone; ricondurre questi universali antropologici a un singolo individuo, fosse anche il più grande degli esseri viventi, è come identificare la Basilica di San Pietro in uno dei mattoni con cui è costruita. L’unico modo che abbiamo di partecipare a questi prodigi è di annullarci in essi. Non dobbiamo fare arte, ma farci Arte; non dobbiamo fare l’amore, ma farci Amore, liberandoci della “pietra grezza” della nostra individualità, così come un Santo trasfigura la sua condizione umana per unirsi al Tutto.
Parafrasando Housman, potremmo dire:

Non so cosa siano l’Arte o l’Amore, ma so che non hanno nulla a che fare con il pronome: “Io”.

Chiunque cerchi di convincervi del contrario vuole vendervi o il quadro di un suo protetto o un corso di auto-affermazione.

11-06-2015