Una nota banca, proprietaria, fra l’altro, di alcuni Partiti politici, ha recentemente incaricato la nostra società di eseguire una ricerca sui rapporti fra il fallimento delle relazioni affettive e i cambi di genere sessuale. L’interesse delle forze politiche per gli omosessuali è tutt’altro che nuovo. Alla metà degli anni ‘80, quando fu chiaro che i mutamenti dello scenario internazionale (l’ascesa al Soglio Pontificio di Karol Wojtila nel 1979 e l’elezione di Mikhail Gorbachev a Segretario del Partito Comunista nel 1985) minacciavano di privare i Partiti dell’ultimo vessillo ideologico utilizzabile come Unique Selling Proposition nei confronti dell’elettorato, sia a destra che a sinistra si avviarono ricerche affannose di un possibile sostituto, ma queste non portarono alcun risultato: la “rivoluzione” del ‘68 aveva spazzato via ogni possibile ideale (Dio, Patria, Famiglia, Scuola ecc.), senza però offrire alcunché in sostituzione, tranne la minigonna.
Dalle indagini effettuate (ridimensionate per difetto dal successivo Censimento del 1991), emerse che solo il 7,35% degli Italiani sapeva che il temine: “ideale”, oltre che aggettivo, poteva essere anche un sostantivo e che solo lo 0,92% dichiarava di averne mai posseduto uno.
Fu, molto probabilmente, il momento peggiore della politica italiana: privi della contrapposizione dialettica fra Mondo Libero e Blocco Socialista, i Partiti si resero conto di non aver più nulla da offrire ai loro elettori.
Come spesso avviene in questi momenti, ci fu un fiorire di idee balzane (si arrivò perfino a ipotizzare l’elaborazione di Leggi per favorire lo sviluppo economico e il benessere dei cittadini), ma nessuna di esse si rivelò fattibile o conveniente.
Quando tutto sembrava perduto, qualcuno propose di puntare sugli omosessuali.
Questa semplice idea fu, per la politica italiana, l’equivalente dell’introduzione della prospettiva nella pittura Rinascimentale e diede il via a un lento ma costante processo di de-colpevolizzazione dell’omosessualità che si estese a tutte le forme di arte e di comunicazione: televisione, radio, film, giornali e anche ai libri, nel caso qualcuno si fosse preso la briga di leggerli.
Gli omosessuali, che da sempre erano stati rappresentati come elementi deteriori — ambigui, infidi, vigliacchi — assursero di colpo a ruoli da comprimari.
Fino ad allora erano stati i “diversi”, individui di cui avere timore o di cui prendersi gioco; da quel momento in poi, divennero personaggi positivi; un po’ strani, indubbiamente, forse anche un po’ ridicoli, ma fondamentalmente buoni.
Parallelamente, per garantire quella differenza di opinioni che è condizione necessaria per l’esistenza dei Partiti, si avviò un’operazione opposta, tendente a esaltare la mascolinità.
A questo scopo si sfruttò il cineasta Michael Sylvester Gardenzio Stallone che, nel 1976, si era prospettato come un possibile nemico dello status-quo con la sua opera esistenzialista Rocky.
La celebrazione dell’assioma visionario che, nella vita, l’importante non è vincere, ma fare il massimo possibile, rischiava di scardinare le fondamenta stesse della società civile; si decise perciò metterlo in condizione di non nuocere e lo si fece nella maniera più inaspettata, ma, allo stesso tempo più sicura: rendendolo ricco e famoso grazie a pellicole come Rambo, Cobra, o la serie infinita dei sequel di Rocky, che propugnavano valori opposti, più consoni agli interessi della comunità.
Un’operazione simile fu tentata anche con l’ex body-builder Schwarzenegger: uno sguardo attento riesce a cogliere anche in queste pellicole ad alto contenuto maschilista, dei forti messaggi subliminali pro-omosex: i gruppi di soldati in Rambo o Predator sono, di fatto delle comunità esclusivamente maschili, in cui le donne hanno un ruolo marginale; il personaggio di Sarah Connors, nel secondo Terminator si trasforma in una proto-lesbica che maneggia armi ed esplosivi; e, come se non bastasse, in Junior, il personaggio interpretato da Schwarzenegger è il primo uomo a partorire!
Questo fervido operare dette ben presto i primi risultati: gli omosessuali, che fino ad allora si erano tenuti nell’ombra per timore di fare la stessa fine del cugino Sebastian in Improvvisamente l’estate scorsa, cominciarono lentamente a uscire allo scoperto.
Personaggi più o meno famosi, ammisero pubblicamente le proprie preferenze e ciò fu da stimolo per coloro che, pur avendo i medesimi gusti, non godevano di altrettanta notorietà.
Di contro, altri personaggi che avevano utilizzato l’ambiguità come veicolo promozionale si trovarono spiazzati da questo mutamento e furono costretti a un rapido dietrofront.
Un esempio tipico di questo fenomeno fu il cantante David Bowie che, dopo essersi finto omosessuale negli anni ‘60 per ottenere un ingaggio allo Star Club di Amburgo, si dichiarò prima bi-sessuale e poi gettò la maschera sposando la top-model Iman Abdulmajid.
Fu tutto sommato un buon inizio, ma i risultati erano ancora insufficienti per gli scopi della politica: l’omosessualità non doveva solo essere ammissibile, doveva diventare desiderabile.
A questo scopo, si incaricò la Hans Christian Andersen Consulting (che forse conoscerete per il suo motto: “Il nostro lavoro è una favola”) di elaborare un re-branding dell’omosessualità che la rendesse un oggetto di desiderio al pari di qualsiasi altro prodotto commerciale.
L’attenzione degli analisti della Christian Andersen si concentrò sui termini: secondo loro, ciò che impediva all’omosessualità di diventare un fenomeno di massa era l’avversione dell’italiano medio nei confronti dei termini che la designavano.
Appellativi come: “frocio”, “pederasta”, “ricchione”, per secoli, erano stati utilizzati in senso dispregiativo; se si voleva portare l’omosessualità in tutte le case, dissero, le si doveva trovare un nome nuovo.
Ottenuta l’approvazione delle forze politiche (congiunte, s’intende: come abbiamo detto all’inizio, al di là dei contrasti di facciata, i diversi Partiti politici non sono che rami d’azienda di una stessa multinazionale), i creativi della Christian Andersen si chiusero nei loro uffici con una cassa di Champagne (erano i favolosi anni ‘90: c’erano ancora i soldi per comprarsi da bere) e, dopo qualche giorno produssero la parola magica: “Gay”.
Il termine Gay fu, per l’omosessualità, ciò che la Ford “Model T” fu per l’industria automobilistica: era allegro, giovanile, internazionale e si adattava bene alla costruzione di parole composte; “Gay Pride”, per esempio o “Gay Village”, che hanno un appeal ben maggiore degli equivalenti: “Orgoglio Finocchio” o “Frociolandia”.
L’impatto che il re-branding dell’omosessualità ebbe sulla popolazione superò anche le più rosee aspettative: ammaliati dalla promessa di felicità che quel termine sottendeva, milioni di cittadini, uomini e donne, decisero di provare il nuovo “prodotto” e divennero gay.
Come previsto, la crescita di questo terzo stato sessuale fu osteggiata dall’ancien régime di coloro che erano cresciuti con i film della Golan-Globus e ciò diede ai Partiti, orfani della Guerra Fredda, un nuovo terreno di scontro.
Se un tempo si diceva: “Quando noi omosessuali saremo il 51% della popolazione, i froci sarete voi”, si cominciò a dire: “Quando saremo il 51%, andremo al Governo”.
Sfortunatamente, però, dopo un primo periodo di entusiasmo, ci fu un ristagno nelle “iscrizioni” (diciamo così) e fu necessario un nuovo intervento della Christian Andersen, che creò un nuovo termine, atto a facilitare la transizione da un genere all’altro.
Il termine, l’avrete intuito, è: outing, in sostituzione delle implicitamente umilianti confessioni o ammissioni di omosessualità.
Il termine “outing” è stato, per l’omosessualità, quello che il Telepass è stato per il traffico autostradale: ha velocizzato il flusso degli autoveicoli, ma non l’ha aumentato più di tanto.
Per questo motivo, i padroni della politica si sono rivolti a noi della Openmouth & Givebreath affinché verificassimo un fenomeno che, se confermato, avrebbe permesso loro di individuare più facilmente i potenziali elettori: la tendenza, sempre più diffusa, di cambiare orientamento sessuale dopo una serie più o meno lunga di relazioni eterosessuali andate male.
Il nostro team di psicologi e sociologi ha effettuato un lungo e attento studio su un campione accuratamente selezionato di persone diventate gay dopo il fallimento del loro matrimonio o di una relazione sentimentale.
Abbiamo riassunto risultati della nostra ricerca in quella che possiamo considerare la “Top-ten” delle cause di separazione (inteso qui non nell’accezione giuridica del termine, ma in senso più generale); un elenco che ci auguriamo possa essere d’ausilio non solo ai nostri committenti, ma anche a chi, alla fine di una relazione, si interroghi sui motivi che hanno causato la rottura, dacché, come abbiamo scoperto, è molto frequente che la conclusione a cui arrivano queste persone (“sono gay”), sia spesso errata.
Top-Ten delle cause di separazione
Se la/le tua/tue relazioni etero sono fallite, è probabile che sia successo perché sei:
1 | Egoista | 33,7% |
2 | Immaturo/a | 25,4% |
3 | Pigro/a | 9,6% |
4 | Insicuro/a | 8,5% |
5 | Geloso/a | 7,3% |
6 | Stupido/a | 7,2% |
7 | Testa di cazzo | 4,8% |
8 | Tutti i punti da 1 a 7 | 2,7% |
9 | Un grande panda | 0,8% |
10 | Gay | 0,2% |
Abbiamo presentato il nostro studio al Cliente, temendo che fosse deluso dai risultati ottenuti, ma ci sbagliavamo.
A quanto pare, non importa se chi pensa di essere gay lo sia davvero: ciò che conta è che sia convinto di far parte di un determinato gruppo di persone, perché in quel caso sarà sensibile alle argomentazioni che gli saranno fornite, indipendentemente dalla sua effettiva appartenenza al gruppo.
“Se non fosse così,” mi ha spiegato, bonario, un Segretario di Partito “non si spiegherebbe il fatto che da sempre riempiamo le piazze rivolgendoci, ipoteticamente, a dei cittadini onesti”.