Virtual C@naro

Canzonature

Effetti, personali

Pubblicato il: 15-02-2025

Il medium è il messaggio

Il televisore era un portatile Voxon T711 che mio padre aveva comprato per la casa al mare, quando ancora ce ne potevamo permettere una.
Lo schermo - ovviamente a tubo catodico, ovviamente in bianco e nero - aveva la stessa definizione del tappeto che avevamo in salotto. Sul lato destro, tre manopole permettevano di variare volume, luminosità e contrasto mentre un bottone permetteva di cambiare la gamma d’onda: VHF per il Primo canale RAI; UHF per il Secondo canale RAI, il neonato Terzo canale e le prime, timide, televisioni private. Sulla parte superiore c’erano altre due manopole che permettevano di sintonizzare i canali. La prima manopola era fossile, perché in VHF non c’erano alternative al primo canale RAI; l’unica a essere utilizzata era quella della banda UHF.
Non c’era la possibilità di memorizzare la sintonia di un canale, andava ricercata da capo ogni volta. Per darvi un’idea di che tipo di stress potesse essere, quando ho mandato l’ìmmagine qui sopra a mio fratello, lui, a quarant’anni di distanza dai fatti, mi ha risposto:

“Michele, vai a cambiare canale”.. sempre io e quella rotellina malefica

Se un programma non si vedeva bene, si doveva riposizionare l’antenna telescopica che sbucava dall’angolo posteriore destro del cubo. Questa, aveva la sinistra caratteristica di variare la propria efficienza quando la si toccava; appena la lasciavi, immancabilmente l’immagine peggiorava, costringendoti a una nuova sintonia e/o a un nuovo orientamento dell’astina argentata. Chiunque abbia coniato il detto: “L’ottimo è nemico del buono” ha posseduto o utilizzato un Voxon T711.

Il Nano e la Strega

Un po’ perché ero il figlio più grande, un po’ perché mio fratello non lo amava particolarmente, il televisore Voxon, una volta che i miei lo avevano mandato in dismissione, me l’ero cuccato io. L’utilizzo che ne facevo era assolutamente irreprensibile fino alle 22:59, dopo, neanche fossi stato un vampiro settato per errore sul fuso orario di Istambul, scattava immancabilmente la ricerca di qualche trasmissione che mi aiutasse a placare i miei ardori giovanili.
I miei amici sostenevano che, dopo la mezzanotte, alcune TV private cercavano di acquisire pubblico trasmettendo dei film porno. Sarà, ma io, in anni di ricerca matta e disperatissima sono riuscito a vederne solo due, per altro nella stessa serata (era una sorta di marat-Onan di film osée). Il primo si intitolava Karzan, ed era una rilettura piuttosto particolare del capolavoro di Burroughs; il secondo era un cartone animato dal titolo: Il nano e la strega. La trama era quella che vi potete immaginare.
A ogni modo, erano quasi le undici di sera di un Martedì e io - dopo aver scoperto con un certo disappunto che il documentario su Levi Strauss trasmesso da RAI 1 non parlava dell’inventore dei Jeans, ma di un tipo che studiava gli africani - mi ero appostato su Rai 2, dove era appena terminata una tediosa tribuna elettorale, per sentire cosa avrebbero trasmesso dopo. Sì: sentire, perché all’epoca i programmi venivano pre-annunciati da donne graziose ed elegantemente vestite che, al termine di un programma, dicevano ai telespettatori cosa sarebbe stato trasmesso dopo. Non ricordo quale annunciatrice RAI comparve sul mio schermo quella sera, ma ricordo molto bene ciò che disse:
«Trasmettiamo ora: Mister Fantasy, musica da vedere; conduce Carlo Massarini.»
Di quel programma non avevo mai sentito parlare, ma Carlo Massarini lo conoscevo bene, perché scriveva su un giornale di musica chiamato Popster1, insieme a Roberto d’Agostino. Me li ricordavo - entrambi - perché il loro modo di scrivere era diametralmente opposto: mentre D’Agostino nelle sue recensioni era impietoso, arrivando ad affermare che Pictures At An Exibition degli Emerson Lake & Palmer “rivalutava l’ascolto di Radio Vaticana”, Massarini aveva sempre una parola buona per tutti. Decisi perciò di mettere temporaneamente a tacere i miei ormoni e di scoprire come fosse questa “musica da vedere”.

Intermezzo didascalico per i non-boomer

Va precisato che, negli anni ‘70, di video musicali non è che ce ne fossero stati tanti. Per lo più si trattava di scene tratte da film musicali come Grease o Stayin’ Alive o di riprese dei gruppi che suonavano in uno studio (Abba, Mamma mia!) o dal vivo (Eagles, Hotel Calfornia). Dagli Scopitone2 in poi, i video si limitavano a illustrare il tema ella canzone: nessuno raccontava una storia a sé stante.
Come se non bastasse, durante gli anni ‘70, in Italia, c’era stato un proliferare di musica cosiddetta: impegnata, prodotta da autori di qualità variabile dal pessimo al sublime, ma di orientamento politico comune. I temi spaziavano dalla storia di un anarchico che decide di schiantarsi con la sua locomotiva contro un treno di ricchi, ma viene deviato su un binario morto, ai reiterati lamenti per la prematura dipartita di una giovane tossicodipendente. Accendevi la radio per distrarti dalla brutale realtà degli Anni di Piombo e ti deprimevi ancora di più3.
Negli anni ‘80, le cose sarebbero andate in tutt’altra maniera.

New Wave

Che Mister Fantasy fosse una trasmissione innovativa lo si capiva fin dalle prime immagini: non solo non c’era il pubblico - fino ad allora immancabile, nelle trasmissioni musicali (se no, chi applaude?) - ma non c’era nemmeno lo studio, sostituito dalle candide scenografie digitali di Mario Convertino. In mezzo a tutto questo biancovedere, ‘na mano dint’‘a sacca, c’era lui, il Vicario in Terra di Steve Winwood4: Carlo Massarini, con la faccia da bravo ragazzo, i capelli pettinati come Sheldon Cooper e il sorriso sincero di chi fa un mestiere che ama.
I video trasmessi nella prima stagione andavano da Little Tony agli Stray Cats; da Gianna Nannini ai Talking Heads; da Eugenio Finardi a Steve Winwood. Le canzoni in Inglese erano sottotitolate con testi in sovraimpressione che sembravano i titoli di coda di Novantesimo Minuto, ma, per motivi ignoti, la traduzione non copriva l’intero testo della canzone, lasciando nel dubbio noi che non avevamo ancora grande familiarità con la lingua del Grande Bardo (sempre Steve Winwood).
È difficile spiegare la sensazione che mi diedero le prime puntate di quella trasmissione; per certi versi5, penso si possa paragonare a ciò che provò la generazione della mia zia sessantottina all’arrivo dei Beatles in un ambiente musicale dove Gianni Morandi si inginnocchiava in quanto indegno di lei e Gigliola Cinquetti viveva un amore romantico perché non aveva l’età per passare ai fatti. In un lasso di tempo estremamente beve eravamo passati dalla malinconia metropolitana di Stefano Rosso:

Via della Scala è sempre là
E io dal letto 26
Malato di pazienza sto
E aspetto chi non torna più

all’allegria caraibica dei Wam!:

Let me take you to the place
Where membership’s a smiling face

Era chiaro che stavamo vivendo un momento importante nella storia della musica; che sarà pure una storia con la “s” minuscola, ma è comunque una storia.

Un Sabato Italiano

Dopo circa milleduecento parole, finalmente siamo arrivati al tema princpale di questo scritto, ovvero le occasioni in cui Sergio Caputo, in qualche modo, (e del tutto inconsapevolmente) è entrato nella mia vita. È il 1983 e fra gli ospiti di Mister Fantasy compare lui: camicia azzurra aperta su una maglietta con la scritta: Frankie Goes To Hollywood, un viso più liscio del travestito di Califano e delle armonie che adesso vanno per la maggiore, ma che - all’epoca - avrebbero fatto rabbrividire di raccapriccio buona parte dei musicanti italici, che solo raramente andavano oltre i giri armonici in 4/4, inserendo giusto qualche accordo di passaggio quando volevano fare gli originali.
La storia del disco che dà il titolo a questo paragrafo è raccontata in dettaglio in decine di pagine Web e nell’omonimo libro; se vi interessa, leggetevela lì. Qui, ego[is]ticamente, mi limiterò alle occasioni in cui una delle canzoni di Caputo si è subdolamente intrufolata nella mia vita.
La sequenza temporale degli aneddoti è relativa alla data di pubblicazione dei brani e al loro ordine all’interno di ciascun album - che è cosa certa, al contrario dei miei ricordi.

Cimici e Bromuro

Storia di un soldato di leva “ospite” della Neuro militare, che pensa alla sua ragazza e a ciò che farà con lei una volta che sarà finalmente libero. Niente di peccaminoso: si limiteranno a camminare ancora per le strade, con in tasca le prove della loro santità, quale che sia.
Detto così, può sembrare poca cosa, ma a me - sdraiato su una branda del CAR6 di Lecce, nell’inverno del 1984 - sembra un destino decisamente auspicabile, anche se a casa non ho una ragazza che mi aspetta. La cassetta che sto ascoltando nel mio Walkman me l’ha lasciata la mia madrina, venuta a trovarmi in occasione del Giuramento. Mi ha lasciato anche Café Bleu degli Style Council, ma alla malinconia parigina di Tacey Thorn preferisco le descrizioni di vagabondaggi etilici nelle strade della Roma anni ‘80.
Più di venti anni dopo, la stessa canzone tornerà a riscaldare un inverno a latitudini più alte, ma questa è una faccenda privata e raccontarla qui, no, non sarebbe chic.

Night

Un solitario viveur approda alle tre di notte in un night perché non ci sono altri locali aperti. Qui fa amicizia con una cassiera che somiglia a una nota stella del Cinema francese, ma, malgrado il profumo di lei e i decolleté delle signore presenti, pensa alla sua donna - che ci auguriamo viva in una località più a Ovest del Brasile, dato che, malgado l’ora tarda, lui, ciucco come un’oca dopo quattro Margarita, la chiama per proporle di andare a cinema il giorno dopo.
È il 2018, ascolto questa canzone tornando a Roma da Gaeta. Poco prima ho ascoltato un vecchio CD dei Police e non posso fare a meno di notare che c’è una certa somiglianza fra questa canzone e Murder by Numbers. L’ascolto di nuovo, poi torno a Caputo. Sì: l’arrangiamento è diverso, ma la somiglianza è evidente. Sorrido; c’ho messo quasi quarant’anni ad accorgermene.

Italiani Mambo!

Sono in auto con mio padre su via Tiburtina. Non mi ricordo se stiamo tornando dagli studi De Paolis o stiamo andando alla redazione di Lanciostory, per cui mio padre sceneggia fotoromanzi.
Non ho ancora un lavoro fisso, quindi quando posso gli faccio da autista, così può dire che la 131 giardinetta color verde fastidio su cui ci presentiamo è la mia - anche se la verità è che in casa, al momento, non ci sono soldi per comprare di meglio. L’unica cosa davvero mia è l’autoradio, una Tanga della Voxon che mi ha venduto per 50.000 Lire un ex-compagno di scuola che adesso fa il ricettatore.
La canzone che stanno trasmettendo mentre passiamo sotto al viadotto di via dei Fiorentini è il sequel di Night: il nottambulo innamorato ha effettivamente preso un aereo e ha raggiunto la sua morosa ai Caraibi per portarla a cinema, senza sapere però che lei ha fatto lo stesso, ma in senso inverso, per tornare da lui. Si ritrova per ciò di nuovo solo e malinconico in mezzo a un’atmosfera carnascialesca e, come se non bastasse, ha anche finito i soldi.
Il ritornello dice:

Ahh ia ihai
Ahh ia iahi
Se divento ricco
Domani parto e non torno più

Mio padre, che fino ad allora è rimasto in silenzio, si volta verso di me e dice: «Questa è la mia canzone..»

Il Garibaldi Innamorato

Non so perché, ma anche questa scena, come tutti gli altri episodi che racconto qui, me la ricordo vividamente, io che di solito ho la fortuna di ricordarmi bene ben poco, specie se si tratta di cose che mi hanno fatto incazzare.
Sono a casa di mia nonna e stiamo vedendo una trasmissione presentata da Pippo Baudo. Se ho fatto bene i conti, l’anno dovrebbe essere il 1987, e la trasmissione Festival, su Canale 5, ma poco conta.
Baudo annuncia il nuovo ospite: Sergio Caputo, che canterà una canzone dal titolo: Il Garibaldi Innamorato. Appena il pover’uomo arriva sul palco, però, Baudo gli attacca un pistolotto nazional-patriottico perché - a suo modo di vedere - il testo della canzone non è rispettoso nei confronti dell’Eroe dei Due Mondi. Se potessi controllare telepaticamente il mio cantante preferito, gli farei rispondere:
«Minchia, e te ne accorgi solo ora? l’ho cantato anche a Sanremo e anche lì eri tu, il presentatore..»
Purtroppo però non sono il Professor Xavier, perciò Caputo - evidentemente imbarazzato dall’inattesa ramanzina - non può far altro che spiegare ciò che dovrebbe essere ovvio, ossia che il testo non ha alcun intento denigratorio, ma vuole solo raccontare un ipotetico Garibaldi privato, che oltre a pensare all’Unità d’Italia, da buon innamorato, pensa alla sua donna.
L’autore di Donna Rosa non sembra del tutto convinto dalla spiegazione, ma magnanimamente lo lascia cantare.

Kiwi

La data, stavolta, è del tutto incerta. Probabilmente a metà degli anni ‘90, perché avevo la moto, ma non ricordo quale, quindi dal 1995 al 2000 è tutto buono.
Il concerto era in un locale sulla via Ostiense, dalle parti dei Mercati Generali. Ora che ci penso, forse era proprio ai Mercati Generali, ma allora l’anno deve essere stato successivo al 2002, dopo il loro trasferimento a Guidonia.
Come che sia, io ingenuamente, mi aspettavo un locale tipo cantina jazz; arrivando, scopro invece che il concerto si tiene in una specie di centro sociale occupato, pieno di fricchettoni. Non è precisamente l’ambiente che prediligo, ma decido comunque di restare; solo che, quando Caputo sale sul palco, penso di aver sbagliato concerto. Non può essere lui: è da solo, ha la barba e indossa un giubbotto di pelle nera tutto borchiato. D’accordo No Smoking, ma così è troppo!..
Appena comincia a cantare, però, mi convinco che è proprio lui e scopro anche che è un eccellente chitarrista. Suona tanto, suona bene, ma quando verso la fine del concerto, dal pubblico gli chiedono reteratamente il brano: Kiwi, per un po’ finge di non sentire, poi getta la maschera e ammette che, a lui, Kiwi non piace affatto.
«Ci sono canzoni che servono solo a riempire un album,» dice - magari non proprio con le stesse parole, ma il senso è quello. Io, che non conosco il brano in questione, resto col dubbio di come sia, ‘sta canzone, ma - forse per una sorta di imprinting - non mi faccio lo scrupolo di scoprirlo; nemmeno adesso, che ho iTunes aperto sulla sua discografia e mi basterebbero due click con il mouse per colmare la mia lacuna.
Per altro, sarà un caso, ma nel lungo elenco delle “Top Songs” capute, Kiwi compare solo una volta; al terzultimo posto.

Lontano che gay

È il 1989 e io lavoro come disegnatore per una grande società di ingegneria. Sono l’ultimo anello della catena alimentare dell’ediliza, ma ho uno stipendio che mi consente di vivere da solo e di comprarmi anche qualche giocattolo, come il mio nuovo lettore portatile di CD e, ovviamente, i CD da infilarci dentro. Uno dei primi che ho comprato è stato: Lontano che vai, che mi è piaciuto, ma che ho trovato decisamente più cupo degli album precedenti.
Ne parlo con l’apprendista del reparto cianografie, mentre mangiamo un sugnoso pezzo di pizza a taglio nel giardinetto davanti all’ufficio.
«Gli ha fatto male, trasferirsi a Milano,» dico. «È diventato più triste.»
«Sarà ‘a nebbia,» risponde lui, laconico; poi mi dice che, quando era a Roma, Caputo abitava nel suo palazzo. «Faceva il grafico pubblicitario, era bravissimo a disegnare. Io ogni tanto andavo a trovarlo.»
A questo punto io non posso fare a meno di pensare a una conversazione che ho avuto tempo addietro con la suddetta zia sessantottina.
«Piace anche a Giulio,» mi aveva detto. «Ma secondo lui, è gay.»
«Gay?» domando. Una parte di me è felice di sapere che il mio cantante preferito piace anche al mio zio preferito; un’altra, valuta la possibilità che quanto affermato da mia zia sia vero.
«Se non è gay lui..» aveva ribattuto lei.
A me, non è mai fregato niente di quello che fanno gli adulti consenzienti nel loro privato - per altro, tutta concorrenza in meno - ma certo sapere che il mio role-model in fatto di relazioni affettive poteva avere interessi diametralmente opposti ai miei era stato un bel colpo. Chiedo una conferma al mio collega, che si mette a ridere.
«Macché gay!» risponde. «Era pieno di donne che andavano e venivano!»

Ti ho incontrata domani

Amo le parole e amo chi le tratta bene, chi le fa uscire dai dizionarii e le sguinzaglia libere sulle pagine.
Ho fatto una prova: visto che stasera c’è la finale di Sanremo, ho preso il testo de Il Garibaldi Innamorato e quello di alcune canzoni che concorrono in questa edizione, poi, con due semplici istruzioni ho chiesto al mio Mac di contare quante parole erano composte e quante di queste parole erano uniche.

cat testo.txt | tr ' ' '\n' | sort | wc -l
cat testo.txt | tr ' ' '\n' | sort | uniq | wc -l

Il risultato è quello che vedete qui sotto: la canzone sanremese di Caputo ha il 7% in più di parole uniche rispetto a Toni F; quasi il 20% rispetto a Gabbani.
Il conto è certamente grossolano e andrebbe fatto sull’intero catalogo di ciascun artista per capire la vastità del suo vocabolario7, ma è comunque indicativo.

cantante parole uniche %
Caputo 209 129 62%
Toni F 290 159 55%
Achille Lauro 267 142 53%
Massimo Ranieri 220 113 51%
Fedez 380 175 46%
Francesco Gabbani 246 108 44%

Amo le canzoni di Sergio Caputo. Le amo perché non sono mai noiose, e anche quando affrontano temi “impegnati” (come avrebbero detto negli anni ‘70) lo fanno con leggerezza e con auto-ironia.
Curiosamente - e dire ciò è il motivo per cui ho scritto questo testo - di tutte le sue strofe, quella che mi è capitato di applicare più frequentemente alla mia vita non è una di quelle famose, che i suoi seguaci gli ripetono dalle pagine di Facebook in una sorta di ecolalia telematica, ma appartiene all’unica canzone italiana in cui sia adoperato l’aggettivo pleonastico e che, non a caso, è il titolo di quest’ultimo paragrafo:

Mi sembravi fantastica
Ora, non ci giurerei

Note

  1. In realtà, ne era anche il Direttore, ma io all’epoca non lo sapevo. 

  2. www.facebook.com/Scopitones/videos/ 

  3. Va detto però che c’erano anche luminose eccezioni a questo malcostume: senza farmi sugerire da Google, i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Mogol/Battisti, il recentemente riscoperto Rino Gaetano, autori impegnati ma non luttuosi come Dalla o De Gregori e ovviamente Edoardo Bennato, con il suo Burattino senza fili

  4. La prima puntata fu il 12 Maggio, compleanno di Winwood. 

  5. Il gioco di parole non è intenzionale 

  6. Centro Addestramento Reclute, il primo periodo del servizio di Leva. 

  7. Come hanno fatto per i rapper americani:
    pudding.cool/2017/02/vocabulary/